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Abusi liturgici e deragliamenti teologici
incistati nel Nuovo Rito della Santa Messa divenuti luoghi comuni

del Prof. Luciano Pranzetti

Fonte: Santi e Beati e autori vari

       Abbiamo sempre distinto la Messa, il Santo Sacrificio della Messa, dalla Cena di Paolo Sesto, voluta appunto come comunissima cena, rivolta a commensali, con un capo-tavola (presidente dell'assemblea), dal sapore protestante, che lasci credere quel che si vuole (presenza reale per i Cattolici, presenza spirituale per i protestanti e i dubbiosi), cena fatta secondo il gusto e i desiderata di ben sei protestanti (!), cena lasciata alla libera e fantasiosa inventiva

di ammiccanti presidenti, "celebrata" non da un sacerdote, ma dal popolo (taluni credono che aggiungendo alla parola popolo la specificazione "di Dio" –popolo di Dio– tutto vada a posto e tutto sia lecito, ma non è così).
      Sulla S. Messa si è scritto e annotato molto, ma non abbastanza, perciò pubblichiamo volentieri l'articolo del fine, acuto e forbito prof. Pranzetti, che evidenzia aspetti talora poco notati o addirittura trascurati.

Grassetti, colori, parentesi quadre, sottolineature, corsivi
e quanto scritto nello spazio giallo sono generalmente della Redazione

       Il 3 aprile del 1969, Papa Paolo VI, con la Costituzione Apostolica Missale Romanum, riformava il Rito Tridentino della Santa Messa rimovendo il latino con l’imporre le lingue nazionali, cancellando rubriche e inserendo novità rituali. L’intera operazione, diretta da Mons. Annibale Bugnini –in lezzo di massoneria (23/4/1963, matricola di loggia 1365/75, BUAN – cfr. OP 12 sett. 1978)  e con la illegittima ed inquinante partecipazione di sei ‘esperti’ protestanti– ha deformato l’identità della Messa riducendola a ‘sinassi’ del popolo di Dio, cioè come assemblea del popolo, smentendone il vero e unico significato di sacrificio, e facendo dell’assemblea stessa il referente privilegiato al punto che molti sacerdoti rinunciano alla celebrazione del sacro rito quando si verifica l’assenza di pubblico.
 
      Prima di passare in rassegna le voci in tema, è necessario definire il concetto e la dinamica del termine ‘liturgìa’ onde evitare fraintendimenti ed inesattezze.
    ‘Leiturghìa’: dal greco ‘leiton’ –luogo di affari pubblici– (derivato a sua volta da ‘laos’ – popolo) e ‘ergon’ –opera– che nell’edizione biblica dei LXX assume il significato di ‘servizio al tempio’. È il complesso tradizionale delle norme che scandiscono i tempi, le formule, i gesti, i simboli, i paramenti di un rito religioso officiato da un celebrante legittimato a rivestire dignità di sacerdote, intermediario tra Dio e l’uomo e stabilisce, in termini inequivocabili, ciò che spetta di competenza all’officiante e ciò che pertiene alla comunità dei fedeli che vi assiste.
 
       Il documento che analizza in profondità ed altezza una parte della riforma liturgica conciliare è, senz’altro il “Breve esame critico del Novus Ordo Missae” presentato al Pontefice Paolo VI dai Cardinali Ottaviani e Bacci il giorno della festività di Corpus Domini 1969. Stimando tale documento di stretta competenza specialistica, noi ne abbiamo illustrati, per quella platea di lettori di ordinaria cultura, alcuni aspetti di maggior immediata comprensione. Vediamo, allora, quanti e quali luoghi comuni e quali errori essi arrecano nella vigente liturgìa cattolica riferita al rito della Santa Messa riformata, così come in appresso:
  - Confesso a Dio Onnipotente.
  - Gloria.
  - Consacrazione.
  - Post Consacrazione.
  - Padre nostro.
  - Datevi un segno di pace.
  - Buona domenica a tutti.
 


CONFESSO A DIO ONNIPOTENTE

      Nel “Vetus Ordo Missae” –il rito tradizionale– l’officiante, nella parte iniziale della celebrazione, invitava i fedeli a riconoscere i proprî peccati recitando, in latino, il “Confiteor Deo Omnipotenti”, cioè: “Confesso a Dio Onnipotente”, col percuotersi con il pugno tre volte il petto, corrispondente al triplice: “Mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa” – per mia colpa, mia colpa, mia massima colpa. Tale rituale, sbianchettati, con la devastante riforma di Paolo VI, i nomi della B. V. Maria, di San Michele Arcangelo e di altri Santi a cui ci si rivolgeva allo scopo di ottenerne intercessione e perdono, è, seppur mutilo e in volgar lingua, rimasto al suo posto.
      Sennonché, al momento di percuotersi il petto, i fedeli dell’odierno “popolo di Dio”, così come il celebrante, non più si battono col pugno in segno di accusa e di dolore , ma, pacatamente e con morbida noncuranza, portano tre volte al petto la mano aperta che, chiaramente, niente ha a che vedere col suggerito invito a percuotersi dacché simil gesto reca seco significati altri da quello richiesto, quasi fosse attestazione di una “una coscienza a posto”, o espressione di “pace e serenità” o volteggio di  leggiadra “carezza”.
      Insomma, si è capito che il “cristiano adulto”, nato dal Concilio Vaticano II, può permettersi un’autostima tale da considerarsi, davanti a Dio, immune da colpe gravi per le quali non è il caso di percuotersi, analogamente al fariseo della parabola, ritto davanti all’altare e lieto di ritenersi senza peccato (Lc. 18, 11/12). Eppure, il salmo 142, 2 –parola del Signore– afferma che “nessun vivente è giustificato al cospetto di Dio”. Ora, se non basta percuotersi il petto col pugno per sentirsi giustificati, figuriamoci con un tocco leggero del palmo della mano.
      La verità è che i segni sacri, tali perché univoci, e su cui è fondata e articolata la liturgìa, sono evaporati a vantaggio di un simbolismo polisemico “fai-da-te” che di sacro nulla possiede e niente esprime.
      Banalità, banalità, banalità.

 


GLORIA

      Narra San Luca che, alla nascita di Gesù, a Bethleem, il cielo sfavillò di luce e una miriade di angeli lodò Dio, cantando: “Gloria a Dio nell’alto dei cieli e pace in terra agli uomini di buona volontà(Lc. 2, 13/14). Orbene, i novatori della moderna esegesi biblica han messo sotto critica la dizione ‘di buona volontà’, ritenuta fuorviante dacché Dio dona la sua pace a tutti. Ed ecco, allora, apparire la nuova versione che così recita: “Gloria... e pace in terra agli uomini che Egli ama(I quattro Vangeli – Ed. Mondolibri S.p.A. Milano, 2005 pag. 76). I soliti correttori della parola di Dio, coloro che ritengono un errore dell’evangelista, arzigogolano che il Signore non può discriminare le sue creature concedendo la sua pace ai soli uomini di buona volontà, ma la dà a tutti perché tutti sono suoi figli. C’è, in questa fregola di revisionismo biblico-teologico, la convinzione che i 4 sacri scribi abbiano, talora, riportato ad orecchio e, perciò, modificandole, parole ben altre proferite da Cristo e, in questo caso, dagli angeli.

      Ora, stando al Magistero Cattolico, la Sacra Scrittura, quale “Parola del Signore” gode del privilegio dell’infallibilità e dell’inerranza,  categorìe che trovano fondamento nell’affermazione di Gesù che, a tal proposito dice: “Il cielo e la terra passeranno ma le mie parole non passeranno(Mt. 24, 35). Su tale fondamento, viene chiarito chi debba essere considerato figlio di Dio, secondo quanto scrive San Giovanni nel prologo: “A quanti l’hanno accolto (Gesù) ha dato potere di diventare figli di Dio(Gv. 1, 12). Tale ultima espressione spiega perché gli Angeli abbiano augurato la pace ai soli uomini di buona volontà, a quelli cioè che avrebbero accolto Cristo come il Salvatore. Il testo greco recita: “Dòxa en ypsìstois Theò, kài epì ghes eirène en anthròpois eudokìas” laddove il termine ‘eudokìa’ reca seco il significato primario di: buona volontà, e poi consenso, approvazione, favore, piacere, delizia (Franco Montanari - Vocabolario della lingua greca, Ed. Loescher 2004, pag. 1089, ad vocem). San Girolamo, quando redasse la sua Vulgata, giustamente la voltò in latino secondo la nota lezione: “Gloria in altissimis Deo et in terra pax hominibus bonae voluntatis”, che in italiano suona: “Gloria a Dio nell’alto dei cieli e pace in terra agli uomini di buona volontà”. Versione canonica che –ripetiamo– gode, come ogni pericope della Sacra Scrittura, del privilegio della inerranza. Ma c’è sempre qualcuno che ne sa più del Signore.
 
       

CONSACRAZIONE

      È il momento trascendente, e centrale, del rito in cui si compie il mistero della ‘Transustanziazione’ per la quale il pane e il vino, pur mantenendo apparenza di specie, diventano vero Corpo e vero Sangue di Cristo. Perché si realizzi tale mistero, il sacerdote celebrante pronuncia la formula che, rispettivamente al pane e al vino, dice: “Prendete e mangiate, questo è il mio Corpo, offerto per voi in sacrificio/Questo è il calice del mio Sangue sparso per voi e per tutti in remissione dei peccati. Fate questo in memoria di Me”. Sùbito dopo, il celebrante intona “Mistero della fede” a cui i fedeli rispondono “Annunciamo la tua morte Signore, proclamiamo la tua resurrezione, in attesa della tua venuta”.

      Figurano, in questo tratto del rito, tre deprecabili luoghi, e cioè: uno stravolgimento della Parola di Cristo, un abuso e un’eresìa. Vediamoli:
 

       a – Il testo originale greco non dice ‘per tutti’, ma ‘per molti’perì pollòn (Mt. 26, 28) prevedendo, Cristo, che da questo Sacramento non tutti gli uomini avrebbero, per propria volontà, tratto profitto. Ma la ‘nuova teologìa’, sorta dall’eretico Concilio Vaticano II e confermata dai Papi –Giovanni XXIII, Paolo VI, Giovanni Paolo II, Benedetto XVI, Francesco I– stabilisce che tutti gli uomini sono stati giustificati, e salvati gratuitamente senza pagar dazio, dalla morte di Gesù, compresi i seguaci delle altre religioni che Giovanni Paolo II afferma essere incluse nel mistero dell’Incarnazione di Cristo quando scrive: “Il Verbo Incarnato è dunque il compimento dell’anelito presente in tutte le religioni dell’umanità(Lettera Apostolica Tertio millennio adveniente – 10 nov. 1994, n. 6). Pertanto, sfacciatamente si corregge il Verbo di Dio –Via, Verità, Vita– il quale aveva affermato: “Cielo e terra passeranno, ma le mie parole non passeranno(Mt. 24, 35). Ma Colui che è PAROLA di DIO –Verbum Dei– non aveva fatto i conti con gli aggiornati dragomanni correttori di bozze conciliari che, sapendone più di Lui, vi hanno tirato un frego svaporando quella verità divina per sostituirla con una accezione di esclusivo dominio antropologico. Una menzogna, un tradimento, un sacrilegio oltre che una crassa ignoranza del costrutto semantico dacché se fosse stata intenzione di Gesù estendere a tutti il beneficio dell’Eucaristia non sarebbe stato necessario premettere per voi in quanto, gli Apostoli, erano già compresi nel tutti. Evidentemente il Figlio di Dio, distinguendo i destinatarî del Sacramento in voi e in molti, intendeva dire ciò che disse, ma per la truppa degli ermeneuti vaticansecondisti, gonfi di scienza e di presunzione, non sapeva ciò che diceva.
 

       b – La liturgìa –come sopra s’è scritto– è scienza che regola parole, tempi, gesti, paramenti del rito in rapporto alla divinità, e stabilisce precise e nette norme che descrivono il ruolo del celebrante e della comunità dei fedeli che assistono al mistero. Fra le varie competenze ascritte al celebrante v’è –in forza del sacerdozio ministeriale sancito dal sacramento dell’Ordine– quella, sola, esclusiva ed inalienabile di pronunciare le formule della Consacrazione. Ma, sull’onda della predetta ‘nuova teologìa’ che fa del fedele un ‘partecipante’ e non, invece, un adorante che ‘vi assiste’, non sono pochi coloro che accompagnano il celebrante pronunciando, sotto voce ma udibili, le parole della ‘epiclési’, della preghiera, o invocazione, con cui si chiede allo Spirito di Dio di trasformare il pane e il vino nel Corpo e nel Sangue di Cristo. Un abuso vero e proprio consumato con sottostante atteggiamento di superbia presumendo di rivestire il ruolo attivo del legittimo celebrante, un’indebita appropriazione di funzione. Obbligo del fedele è, invece, osservare un raccolto silenzio –esteriore/interiore– nell’adorazione del Cristo presente nelle specie eucaristiche, col divieto di sconfinare in aree a lui interdette poiché è più che palese l’inefficacia delle parole abusivamente pronunciate.
    E come recita l’aureo brocardo giustinianeo: “Unicuique suum” –a ciascuno il proprio còmpito–.
 

       c – Dopo lo stravolgimento della Parola di Dio e un abuso liturgico, ecco una vera e palese eresìa annidata nella formula recitata sùbito dopo l’avvenuta Transustanziazione del pane e del vino nel Corpo e nel Sangue di Cristo. Il sacerdote annuncia: “Mistero della fede” a cui segue la risposta dei fedeli che così suona: “Annunciamo la tua morte Signore, proclamiamo la tua resurrezione in attesa della tua venuta”. Nella parte della formula, riportata in neretto, si annida il sottile dubbio sulla reale presenza di Cristo nelle Sacre Specie non tenendo conto che Cristo è, da qualche attimo prima, venuto trai suoi. A che mira, infatti, simile aggiunta se non a dubitare(1) della vera e reale presenza di Cristo di cui, pur essendo più che presente, si attende tuttavìa la ‘venuta’? Strisciante eppur concreta v’è sottesa la dottrina protestante che riduce il dogma cattolico di Gesù Eucaristico in presenza simbolica così come chiaramente annotarono i cardinali Ottaviani e Bacci nel ‘Breve esame critico del Novus Ordo Missae’ (Corpus Domini 1969): “L’acclamazione, poi, assegnata al popolo subito dopo la Consacrazione: ‘Mortem tuam annuntiamus, Domine, etc. donec venias’, introduce, travestita da escatologismo, l’ennesima ambiguità sulla Presenza Reale. Si proclama, senza soluzione di continuità, l’attesa della venuta seconda del Cristo alla fine dei tempi proprio nel momento in cui Egli è sostanzialmente presente sull’altare, quasi che quella, e non questa, fosse la vera venuta”. Ad essere corretti è da precisare che son gli Ebrei che attendono la venuta del Messìa mentre i cattolici aspettano il “ritorno” di Cristo (Mt. 24, 30/31), cosa assai diversa. Un’eresìa, non c’è dubbio, questa ‘venuta’ che si palesa come orientamento dottrinario impresso e concordato proprio con i sei miscredenti ‘periti’ luterani e anglicani –notoriamente legati alla massoneria– nominati da Paolo VI quali membri della commissione deputata a ‘riformare’ (?) la Santa Messa di San Pio V.   Che cosa avessero a che fare degli scismatici con la liturgìa cattolica non è chiaro, chiaro, però, essendo il proposito dello stesso Pontefice, e del massone mons. Annibale Bugnini, di desacralizzarla. Ed ecco, allora, introdurre il verme nella mela, il dubbio nella Verità.
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

(1) Mira soprattutto a far piacere ai protestanti, che non credono che in quell'Ostia e in quel Vino ci sia realmente Gesù in corpo, sangue, anima e divinità, anzi che quell'Ostia e quel vino sono realmente corpo, sangue, anima e divinità di N.S.G.C.: perché dire che siamo in attesa della sua venuta, se Gesù è già presente sull'altare in forza della consacrazione?


POST CONSACRAZIONE

      “Ricordati dei nostri fratelli e sorelle che si sono addormentati nella speranza della resurrezione”, così recita il celebrante nel “memento defunctorum”. Apparentemente tutto sembra ovvio, canonico e ortodosso solo che, soffermandoci un poco ad analizzare il periodo nella categorìa teologica, si nota una sottile ma reale diluizione del dogma della resurrezione. Perché?
      Si consideri la virtù teologale della speranza. Ora, senza avvalerci dei grandi teologi ma ricorrendo al Catechismo della Chiesa Cattolica –ed. LEV 2003 pag. 502– sappiamo che questa virtù teologale si caratterizza dall’essere espressione di un forte desiderio, di un’aspirazione alla felicità “che Dio ha posto nel cuore di ogni uomo; essa assume le attese che ispirano le attività degli uomini; le purifica per ordinarle al regno dei cieli; le salvaguarda dallo scoraggiamento; sostiene in tutti i momenti di abbandono; dilata il cuore nell’attesa della beatitudine eterna”.
      Sperare è attendere un qualcosa che potrebbe, anche, non arrivare. La speranza della guarigione, ad esempio, è l’attesa di questa, sentita come possibile ma non certa. Dante, nella sua Commedia, rispondendo a San Giacomo, circa l’essenza della speranza, così parla: “Spene –diss’io– è uno attender certo / della gloria futura, il qual produce / grazia divina e precedente merto(Par. XXV, 67-69) laddove certo sta per ‘risoluto, energico, saldo, tenace’ termini aggettanti sul territorio della consistenza, della tensione e non su quello della certezza del risultato. La speranza, cioè, è l’attesa fiduciosa, più o meno giustificata, di un evento gradito o favorevole.  
      Sperare nella resurrezione è dubitare che questo evento si verifichi. Ora, dato che la resurrezione è un dogma di fede (Mt. 25, 31-45), suona assai strano che si preghi il Signore perché si ricordi dei suoi fedeli che si sono addormentati nella speranza della resurrezione dal momento che essa è avvenimento futuro certo, tanto per i giusti che per i malvagî. Pertanto è tassativo rettificare con: “... nella certezza della resurrezione” o mantenere la formula con la seguente integrazione: “... nella speranza della resurrezione in/con Cristo”(2).

      Ecco, allora, un'altra ambiguità, che indebolisce la dottrina cattolica, inserita nel Novus Ordo Missae dalla Commissione, delegata alla Riforma Liturgica di Paolo VI, presieduta dal massone mons. Annibale Bugnini con la “consulenza” di sei “esperti” protestanti – luterani e anglicani.
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

(2) Limpido, chiaro, lineare, senza alcuna possibilità di equivoci è invece il Memento dei defunti detto nel rito tridentino: "Ricordati o Signore dei tuoi servi e delle tue serve che ci hanno preceduto col segno della fede e dormono il sonno della pace. Ad essi, o Signore, e a tutti quelli che riposano in Cristo, noi ti supplichiamo di voler per la tua misericordia concedere il luogo del refrigerio, della luce e della pace. Per lo stesso Cristo Signore nostro. Amen". Qui non c'è speranza, ma certezza! anche perché la speranza cessa con la morte: il defunto ha davanti a sé solo certezze, o un'eternità felice o un'eternità di pene, o Paradiso o Inferno.


PADRE NOSTRO

      Uno solo è il luogo comune che, probabilmente, renderà la preghiera, insegnata da Cristo stesso, inficiata sotto il doppio versante teologico/semantico per via di un’irriverente, arrogante, distorta e ridicola correzione della Parola di Cristo, similmente a quanto esposto sopra alla voce ‘Consacrazione’, lettera a.
   Nell’intervista al cardinal Giuseppe Betori –Avvenire 10/7/2017– si ha conferma di una prossima correzione del testo evangelico, così come voluta dal Papa Francesco I, d’intesa con i più dotti biblisti in circolazione. “Un Lavoro di squadra”, osserva compiaciuto il presule fiorentino, che ha stabilito essere, il passo di Matteo 6, 13 “E non ci indurre in tentazione” del tutto inaccettabile poiché –ragionano Papa Francesco, il cardinal Betori e la squadra dei biblisti– Dio, che è somma bontà ed infinita misericordia, non può mai ‘indurre’ in tentazione. Pertanto, posta tale ‘verità’, il verbo incriminato va sostituito con altro più corrispondente alle predette divine bontà e misericordia.  
      Ed ecco, allora, escire dal cilindro del vocabolario conciliare la magica soluzione sostitutiva: “Non ci abbandonare alla tentazione”, formula che, dalla prima domenica di Avvento –2020– verrà recitata ufficialmente. Una formula, come abbiam detto sopra, che determina una doppia nefasta deriva: teologica e semantica e di cui ci apprestiamo a rendere conto e ragione.
  Il N. T., come si sa, è scritto in lingua greca che, pur essendo diversa dall’aramaico parlato da Gesù, è testo canonico su cui si fondano l’intera Rivelazione e il ‘Depositum fidei’. Ciò per dire che, greca o aramaica la versione, niente cambia ai fini della inerranza della Parola di Dio fattosi uomo.
   Cosa dice, allora, Gesù (Mt. 6, 13)? Dice testualmente “kài mè eisenègkes hemàs èis peirasmòn, allà rysai hemàs apò tù ponerù”, corrispondente al latino della Vulgata di San Girolamo “et ne nos inducas in tentationem sed libera nos a malo”, cioè, “E non ci indurre in tentazione ma liberaci dal male”.  
   Papa, cardinal Betori e squadra di biblisti affermano che Dio non induce in tentazione. Bene, ci dicano allora, che cosa voglion significare le tante prove –vere e proprie induzioni in tentazione– a cui, come racconta il V. T., il Signore sottopone i progenitori nell’Eden, Israele, i profeti, Abramo, Giobbe 2, 10 (Se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremmo accettare il male?), così come recita il salmo 138, 1 e come si legge nel N. T. –vangelo di Matteo 4, 1/11– lo stesso Gesù essere indotto in tentazione, messo alla prova come espressamente recita il testo greco “Tóte o Iesùs anèchthe éis tèn érmon ypò tù Pnèumatos peirasthènai ypò tù diabólu” –Tunc Iesus ductus est in desertum a Spiritu, ut tentaretur a diabolo– Allora Gesù fu condotto nel deserto dallo Spirito (Santo) perché fosse tentato dal diavolo.
  Insomma: da quanto sopra esposto ne vien fuori che il Signore Iddio Padre –come attesta la parola di Gesù– ci può, sì, indurre in tentazione ma mai in peccato, nel qual caso sarebbe veramente da pensare a una correzione, eccome! Ma le cose non stanno in questi termini ché il Figlio di Dio conosce bene le parole essendo Egli stesso Verbum Dei, la Parola di Dio.
      Non c’è, pertanto, ragione per dilungarci a dimostrare quanto presuntuosa ed offensiva sia la decisione di cancellare il verbo ‘indurre’ per ‘abbandonare’ in quanto è chiarissimo e incontestabile il potere e la volontà che Dio ha di imporre prove, cioè, ‘indurre in tentazione’, così come bene recita il salmista.
      Gravissimo atto di protervia culturale e di ribellione, pertanto, si pone, sotto l’aspetto teologico, siffatto tentativo di correggere il Verbo di Dio ritenuto non al passo dei tempi. Eresìa, non v’è dubbio.

 
      Ora, se con la sostituzione di ‘indurre’ con ‘abbandonare’ s’è compiuta, riferita al versante teologico, un’azione eretica e un’offesa a Colui che è Verità, sotto quello semantico s’è raggiunto il massimo del ridicolo. I soloni, che pretendono di rettificare Cristo, sono naufragati nel mare del comico peggiorando ancor il criticato ‘indurre’. Noi, pertanto, con l’ausilio della sola analisi etimo/logico/semantica dei due verbi –indurre/abbandonare– dimostreremo come l’adozione del secondo realizzi una visione palesemente più forte del primo, addirittura sacrilega. Vediamoli.
aIndurre. Verbo che ricalca il latino ‘in-ducere’ – condurre verso – e che, nelle varie e molteplici circostanze in cui viene flesso, sta a significare un dinamismo con cui un soggetto spinge e/o viene spinto a comportamenti, gesti per lo più negativi come: indurre in errore, indurre a delinquere... Ora, considerando l’etimo e la semantica, si può notare come nel composto in-durre sia presente un iniziale moto a cui il soggetto collegato non viene necessariamente coartato a cedere, tanto che l’indurre in tentazione altro non è che un ‘tentativo’, operazione che sollecita a compiere un alcunché ma non necessariamente a condurlo a termine. Abbiam detto sopra che Dio ‘mette alla prova’ sì come appare, fra i numerosi, dagli esempî di Giobbe e di Gesù, due che, in modo diverso, seppero respingere l’induzione dandoci il modello per come si possa superare un momento critico.   
   Fatto, pertanto, chiaro che lo ‘indurre’ del Padre Nostro esprime la volontà di Dio secondo la quale Egli mette alla prova, non è automatico che l’uomo debba cadere nel peccato in quanto il suo libero arbitrio, illuminato e ammaestrato dalla Legge divina, gli permette la conoscenza del Bene e del male e, quindi, la volontà di resistere e vincere. Da notare, infatti, che dopo la richiesta di non essere indotti in tentazione, è lo stesso Gesù che ci dice di chiedere la liberazione dal male.
  Colui che pratica sport estremi, l’acrobata, il rocciatore, mette sé stesso alla prova, si ‘induce’ nel rischio non perché debba sicuramente fallire ché non avrebbe senso alcuno sfidare il proprio limite se non venisse posta a priori la volontà di superare la linea che segna le due aree: la sconfitta e la vittoria.

bAbbandonare. Verbo di etimologìa varia che gli specialisti riconducono a un antico francese “à ban donner” – dare in balìa di – o ad un “a bando dare” – proscrivere, lasciare definitivamente. Comunque lo si usi, mantiene un significato di larga univocità, e cioè: lasciare qualcuno/qualcosa senza aiuto, senza protezione, dimenticare –volontariamente o non– qualcuno/qualcosa. Insomma, il concetto che ne vien fuori dice come l’abbandonare valga azione che, riferita alla nuova formula del rivisitato Padre Nostro, farebbe di Dio un Essere perfido o scordarello che, caduto l’uomo in tentazione, ve lo lascia senza aiuto, senza possibilità di recupero, senza mezzi di riscatto, disinteressandosi di lui. Ora, sarebbe paradossale che nella preghiera, insegnataci da Cristo stesso, si chieda al Padre di non ‘abbandonarci alla tentazione”, di non lasciarci soli e privi del suo aiuto ché tale è il significato del complemento di moto per il quale si raffigura il Signore che ci getta in braccio alla tentazione ivi lasciandoci soli e abbandonati.   E se i soloni avessero letto bene le parole di Gesù, avrebbero compreso che il Padre celeste non ci induce al peccato ma alla tentazione, cioè ci mette alla prova, come è dimostrato dagli esempî sopra riportati. Cosicché, la revisione operata dagli... “esperti”,  si è rivelata una toppa, come ben si avverte, peggiore del buco che si vorrebbe rammendare, a gloria del Pontefice, del cardinal Betori e della squadra degli acculturati biblisti.
 
       Noi ci sentiamo in dovere di consigliare costoro, in piena e turgida fregola revisionistica, a non avventurarsi in conflitti con la Parola di Cristo ché la sconfitta, così come la figuraccia, è sicura, oltre che lo scotto da pagare.
      Cosicché, appare chiaro come la sostituzione di indurre con abbandonare renda un pessimo servigio alla Verità e riveli la smania revisionistica della neo-Chiesa che, per modellare una pastorale a sola caratura umana, fa la pesa alla Parola di Dio. Ma la rivoluzione bergogliana, che gronda misericordia da ogni artiglio (cfr. azzeramento: Ordine Frati dell’Immacolata, Le piccole Sorelle di Maria Madre del Redentore, disprezzo per i 4 cardinali autori dei dubia...), va avanti inarrestabile fidando sulla parola (!) di p. Arturo Sosa, attuale ‘papa nero’, il gesuita che afferma come, per essere bravi cristiani di oggi, sia necessario contestualizzare storicamente, cioè secondo l’hegeliano ‘zeitgeist ‘ –lo spirito del tempo– la Parola di Cristo il quale, lo si dica chiaro e schietto e lo si sappia, non disponeva di registratori vocali, per cui –come si dice in tali casi– “Verba (Christi) volant” –le parole (di Cristo) volano– sicché il dubbio e la revisione sono legittimi.   Iniziata, così, l’opera di demolizione nei confronti della Sacra Scrittura, non è lontano il timore che ben altri passi del Vangelo potrebbero essere soppressi o sbianchettati –vedi Marco 10, 1-12 ‘Il matrimonio’– o alcune pericopi di San Paolo –vedi I Corinti, 6, 7-11– perché non allineati alla nuova pastorale bergogliana. Stìano, però attenti i sabotatori del Verbo divino ché “vendetta di Dio non teme suppe” (Pg. XXXIII, 36), e non credano di stare al sicuro per essere, loro, uomini consacrati perché proprio tale supposta garanzìa sarà motivo di maggior rigore. San Pio da Pietrelcina ebbe in visione “Gesù tutto malconcio e sfigurato. Egli mi mostrò una grande moltitudine di sacerdoti, regolari e secolari, fra i quali diversi dignitari ecclesiastici; di questi, chi stava celebrando, chi si stava parando e chi stava svestendosi delle sacre vesti. La vista di Gesù in angustie mi dava molta pena, perciò volli domandargli perché soffrisse tanto... osservai due lagrime che gli solcavano le gote. Si allontanò da quella turba di sacerdoti con una grande espressione di disgusto sul volto, gridando: Macellai! E rivolto a me disse: figlio mio, non credere che la mia agonìa sia stata di tre ore, no; io sarò, per cagione delle anime da me più beneficate, in agonìa sino alla fine del mondo.” (Luigi Peroni: Padre Pio da Pietrelcina, Ed. Borla 2002, pag. 150).
    Dove pensate sìano andati i ‘macellai?”
 

       Anche nella recita del Padre Nostro si verifica un’indebita appropriazione di ruolo. Parliamo di quei fedeli che lo recitano a braccia aperte, imitando il sacerdote il quale è, invece, il solo autorizzato a simile rituale, a somiglianza di Mosè che, nella battaglia contro Amalek (Es. 17, 11/13), teneva, lui soltanto, le braccia sollevate consentendo, così, a Israele di prevalere. E poi, è maniera diffusa assai, ad opera soprattutto di gruppi organizzati –Carismatici, Neocatecumenali, Focolarini, Scautismo cattolico (Agesci), Comunione e liberazione ecc.– recitare il Padre Nostro tenendosi per mano. Siffatta scenografìa si agguaglia a quella ‘catena’ che, negli antichi misteri, gli adepti formavano per destare le energìe uraniche e telluriche onde sollecitare la possessione collettiva da parte del ‘dàimon’, così come i circoli satanisti la realizzano, durante le loro sedute spiritiche, per evocare, tramite la supposta, reciproca trasmissione delle individuali energie, le ‘larve’ dei trapassati o suscitare le forze ctonie, sotterranee cioè, infernali. Una dissacrante gestualità segnata dal sigillo del paganesimo.
 


DATEVI UN SEGNO DI PACE

      Al termine del Padre Nostro, il celebrante, rivolto ai fedeli, porge loro l’invito a scambiarsi ‘un segno di pace’. Sùbito dopo si scatena la caccia alla mano da stringere. Eh sì, perché nonostante l’esortazione parli di un segno –vale a dire uno, tra i tanti, non ben identificato– quello della stretta di mano è diventato il segno unico ed esclusivo. Per il quale va ricordato il ruolo che, nella riforma –o ‘deforma’– della Santa Messa ebbe il sopra citato massone, mons. Annibale Bugnini, il quale, in forza del suo incarico di Presidente di Commissione, inserì questo gesto non senza una sottile e reale intenzione di inquinare il significato della vera pace di Cristo. Un elemento totalmente dissacratorio che ci apprestiamo a spiegare.
      Alla più parte dei fedeli sfugge che la ‘stretta di mano’ è uno dei segni di riconoscimento che i ‘fratelli 3 puntini’ –i massoni– includono nel loro ermetico cerimoniale. Chi possiede, sia pur superficiali, nozioni circa la massoneria e il suo rituale, sa che la stretta di mano, col pollice di una che preme, due o più volte, sull’altra nella concavità molle, sita tra pollice/indice e contigua alla così detta “tabacchiera anatomica”, è un espediente di per sé nulla significante per chi, massone non essendo, non ne avverte il messaggio cifrato, diversamente da altro che, massone ‘coperto’, lo riceve pronto a ricambiarlo.
      Sfugge, abbiam detto, alla totalità dei fedeli dacché la stretta di mano è sempre stata, e lo è, segno di amicizia, di concordia, apertura a nuovi rapporti umani, sigillo a un patto e, pertanto, intrinsecamente positivo. Con questa apparente connotazione di affermata positività, che fa velo all’occulta ma reale significanza, buon gioco ha avuto lo scaltro massone mons. Bugnini ad inserire, così, un perverso simbolo nel rituale della Santa Messa.
      Ma è da sottolineare che, al di là della sottigliezza massonica, la stretta di mano resta un gesto laico che niente ha da spartire col segno di pace che caratterizza la dimensione cristiana definita nel complesso del sacro rito della Messa intesa quale ripetizione incruenta del sacrifico della Croce
      Noi, per siffatta ragione, rifiutiamo di stringer la mano che qualche fedele protende verso di noi e ciò desta sorpresa –spesso irritazione– nell’altro che, a fine rito, ci chiede spiegazione. E noi, allora, volentieri illustriamo l’arcano, così, come in appresso.
      Narra Eusebio di Cesarea (263-339 d. C.) che, alcun tempo prima della battaglia a Ponte Milvio –28 ottobre 312– l’imperatore Costantino, ebbe in sogno una visione in cui gli appariva una Croce con la scritta greca “En tuto nike” –in questo la vittoria– tradotta in latino “in hoc signo vinces” –in questo segno vincerai. Dopo di che dette ordine di apporlo su scudi e labari. È il segno che consacrò i crociati nella difesa della Terra Santa, che protesse i Franchi dai musulmani nella battaglia vittoriosa di Poitiers (732), che accompagnò la flotta cristiana a Lepanto (1571) contro l’Impero Ottomano, che fu baluardo e vittoria sui Turchi nell’assedio di Vienna (1683); è il segno con cui si rappresenta e si adora Dio Trinità; che splende e lampeggia nel cielo dei martiri, così come lo vide e descrisse Dante nella sua Divina Commedia (Par. XIV, 94/105); che adorna il logo di tutti gli Ordini religiosi; che apre e chiude l’amministrazione di ogni sacramento; che apre la vita del cristiano nel battesimo e la chiude nell’estrema unzione; che apre l’ufficio delle ore, da mattutino a compieta; che apre e chiude il rito sacrificale della Santa Messa; che apre e chiude la recita del santo Rosario; che apre e chiude la giornata del buon cristiano; che dà conforto nei momenti di pericolo; che pende dalla catenina quale testimone di fede e di difesa; che santifica il pasto; che spicca sui campanili, irradia pace nei cimiteri e consolazione negli ospedali.
      Ciò vuol dire che l’unico e il solo segno che distingue e rende riconoscibile il cristiano è quello della santa Croce, riassuntivo dell’intera storia della salvezza, delle virtù teologali –Fede, Speranza, Carità ma soprattutto esclusivo segno di pace, sì, perché sulla/nella/con la Croce s’è ristabilita l’armonìa, l’amicizia fra cielo e terra, fra l’uomo e Dio (rappacificare con il sangue della sua croce, gli esseri della terra e quelli del cielo -Col. 1, 20-), e segno della potenza di Cristo secondo quanto è scritto: “Allora comparirà nel cielo il segno del Figlio dell’uomo e allora si batteranno il petto tutte le tribù della terra, e vedranno il Figlio dell’uomo venire sopra le nubi del cielo con grande potenza e gloria(Mt. 24, 30). La Croce, pertanto, si rappresenta segno con il quale chiediamo e auguriamo la pace e, nello stesso tempo, proclamiamo la potenza e la gloria del Figlio di Dio fattosi uomo.
      Ma, nonostante siffatta alta significanza, si cerca e si dà la pace barattandola con una banale stretta di mano la cui scenografìa rappresenta quanto di più avvilente, penoso e deplorevole si possa immaginare: mani sudaticce, molli, sfuggenti, pendule, flosce che si offrono a mani callose, forti, ossute, asciutte, grasse, tatuate, unghiute, mani che hanno, un momento prima, esplorato le narici attardandosi, poi, a prolungate e vibranti oscillazioni o sbrigandosi in un sol breve contatto delle dita(3). Una ridda di braccia che roteano, si incrociano, un viavai rumoroso di fedeli che attraversano l’intera navata per stabilire il primato di mani agguantate. Una vergognosa e dissacrante messinscena con cui il santissimo, trinitario segno della Croce viene cancellato a favore di un gesto massonico, di marca luciferina abilmente occultato dal suo ideatore, mons. Bugnini, sotto l’apparente patina della cordialità e dell’amicizia.
E vi pare un’ottima scelta?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

(3) Si pensi poi che poi proprio con le mani sporcate dalle sudaticce, grasse ed esploratrici di cavità otorinali pretenderanno di prendere la Comunione, l'Ostia consacrata!!!


BUONA GIORNATA/DOMENICA A TUTTI

      A fine Messa, il celebrante impartisce ai fedeli presenti la benedizione con la seguente formula: “Vi benedica Dio onnipotente: Padre, Figlio e Spirito Santo. La Messa è finita, andate in pace”, a cui l’assemblea risponde: “Rendiamo grazie a Dio”. Dovrebbe, quindi, a questo punto, aver compimento il santo rito. Ma non è così, perché da qualche anno sta andando di moda assai un’appendice che, a dirla schietta, sotto la velatura salottiera e cortese di bonario e fraterno galateo, smentisce e depotenzia la citata benedizione trinitaria mettendone in forte dubbio, sottilmente e tuttavìa realmente, l’infinita e sicura efficacia.
      Il sacerdote, infatti, alla risposta dei fedeli appone, confidenzialmente sorridendo, un laico beneaugurante “buona giornata/domenica a tutti” quale rinforzino di cui l’onnipotente Santissima Trinità –non si sa mai– potrebbe aver bisogno. Un puntello umano in soccorso alla... debolezza del divino.
      Luogo comune, inopportuno per la sacralità del luogo senz’altro, ma, per il significato sotteso, sconveniente e sacrilego, addirittura, che trova sponda in quel mondano, estraneo e orrendo “buona sera” con cui il neoeletto Papa, Francesco I Bergoglio –13 marzo 2013, h. 19,20 ca.– salutò l’ecumene cattolica radunata in Piazza San Pietro, omettendo, volutamente, di porgere l’unico, solo ed esclusivo “Sia lodato Gesù Cristo” noto essendo che il Papa della Chiesa Cattolica è Vicario del suo Padrone, Successore di San Pietro e Vescovo di Roma, e non, invece, il presidente di una delle tante associazioni cultural-sportive o come il condomino contiguo di pianerottolo. Un astuto espediente di “captatio benevolentiae” che dice quanto Papa Bergoglio tenga più ai buoni rapporti con l’uomo che non a quelli con Dio. Eccessiva critica? No, verità conclamata come dimostrano due, fra le molte, circostanze:
      1) Bergoglio non si inginocchia mai davanti al Santissimo Sacramento Eucaristico,
      2) mentre striscia a terra (11 aprile 2019) per baciare i piedi a tre politici sudanesi musulmani ai quali chiede di farsi promotori di pace. Vergogna e teatralità!
      Dello stesso registro casareccio, è quel banale e fuori luogo “buon pranzo” che amministra, o ammannisce, a fine di ogni udienza pubblica, congedando i fedeli che, raccolti in Piazza San Pietro per ascoltare la Parola di Dio, sono scambiati per turisti in bivacco a Piazza di Spagna o a Villa Borghese, o per escursionisti sui Pratoni del Vivaro. Come dire: Cristo non abita in Vaticano. Ne è stato sfrattato.

      Maggio 2018
 


Postilla 1

      Riguardo alle variazioni del GLORIA e del PADRE NOSTRO – come sopra riportato – noi dichiariamo obbedienza al Vangelo, parola infallibile e indefettibile di Cristo, continuando a pronunciare, durante la Santa Messa e in altri ambiti, la storica dizione “agli uomini di buona volontà” relativamente al Gloria e “non ci indurre in tentazione” al Padre nostro. Ciò vale netta e consapevole disobbedienza all’attuale magistero, di cui non riconosciamo l’arbitraria autorità a manomettere pericopi evangeliche che, in quanto espresse da Gesù e riportate dai fedeli evangelisti, portano il sigillo della Verità e, perciò, non errano.
      Se Papa Francesco, e i suoi biblisti, sono così sicuri di avere operato con discernimento, giustizia e scienza, decidano di proclamare ‘ex cathedra’ definendo dogmi di fede le nuove lezioni e noi, fedeli figli della Chiesa Cattolica, consapevoli che siffatto Magistero è assistito dallo Spirito Santo, obbediremo.
      A difesa della nostra decisione portiamo le parole dell’apostolo che categoricamente afferma: “Miror quod sic tam cito trasferimini ab eo, qui vos vocavit in gratiam Christi in aliud evangelium, quod non est aliud, nisi sunt aliqui, qui vos conturbant et volunt convertere evangelium Christi. Sed licet nos aut angelus de caelo evangelizet vobis praeterquam quod evangelizavimus vobis, anathema sit. Sicut praediximus, et nunc iterum dico: si quis vobis evangelizaverit praeter id, quod accepistis, anathema sit(Gal. 1, 1/9) – Mi meraviglio che voi, in sì breve tempo, vi lasciate indurre ad abbandonare (Dio Padre) chi vi ha chiamati nella grazia di Cristo, per passare ad un altro Vangelo. Non esiste un altro Vangelo perché non ce ne è un altro mentre vi sono soltanto alcuni che vi turbano e vogliono pervertire il Vangelo di Cristo. Ma quand’anche noi stessi o un angelo disceso dal cielo vi annunciasse un Vangelo diverso da quello che vi abbiamo predicato, sia scomunicato! Come ve l’abbiamo già detto, ma ve lo ripeto di nuovo: se qualcuno vi predicherà un Vangelo diverso da quello che avete ricevuto, sia scomunicato.

      Questo per quanto riguarda gli autori della nefasta ed eretica operazione. Quanto a noi, credenti nella Verità del Verbo divino, portiamo, a difesa della deliberata nostra disobbedienza e di quella che altri vorranno attuare, quanto Pietro proclamò al Sinedrio di Gerusalemme: “Obedire oportet Deo magis quam hominibus” (Atti, 5, 29) – È necessario obbedire a Dio più che agli uomini.
      E mai, come in questo caso, è necessario attendere alla parola di Dio e disobbedire ai falsi evangelizzatori.
      Ma ciò che addolora e indigna è il silenzio di quanti, per dignità, scienza e competenza dovrebbero, invece, levare alta la voce in difesa della Verità. A costoro sarà chiesto conto della propria viltà.

 

Postilla 2
      Mentre nella celebrazione della Messa, condotta in lingua volgare, si recita, per il GLORIA, la scorretta lezione “Pace in terra agli uomini amati da Dio”, sostitutiva della canonica e autentica “Pace in terra agli uomini di buona volontà” e per il PADRE NOSTRO la parimenti scorretta lezione “Non abbandonarci alla tentazione” sostitutiva della canonica e autentica “Non ci indurre in tentazione”, nella Messa solenne, celebrata in latino, nei due luoghi esaminati è d’uso la giusta lezione “Pax in terra hominibus bonae voluntatis” rispettivamente al GLORIA e “Ne nos inducas in tentationem” al PADRE NOSTRO.
      Ci sia permesso di chiedere una spiegazione a siffatta disparità liturgica.

      Santa Marinella, 25 dicembre 2020

Prof. Luciano Pranzetti

 
     
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