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I Novissimi
secondo Giovanni Paolo II

Riportiamo un articolo pubblicato da Sodalitium nel n. 50 del 1999 alla rubrica "L'Osservatore Romano". È interessante anche per lo scalpore suscitato a suo tempo e dopo. Esso è anche alla base di una discussione che un certo M.O. ha avuto con il Padre X, sacerdote ex-lefebvriano al seguito di don Pietro Cantoni. Tale discussione la riportiamo in altro articolo.

O.R.. = L'Osservatore Romano, edizione italiana.
D.C. = La Documentation Catholique

Sottolineature, grassetti e colori sono generalmente nostri.

       «In omnibus operibus tuis, memorare novissima tua, et in aeternum non peccabis» (Eccli, 7, 40): in tutte le opere tue ricordati della tua fine --delle cose ultime-- e non peccherai in eterno. Se il Catechismo di San Pio X elenca i quattro novissimi (Morte, Giudizio, Inferno e Paradiso --ai quali possiamo aggiungere il Purgatorio--) tra le «verità principali della fede cristiana», tutta la tradizione cattolica ha sempre posto la meditazione dei «novissimi», anche sulla scorta della citazione scritturale summenzionata, al posto principale della via purgativa nell'ascetica cristiana.
       Il dilagare del peccato nei nostri tempi e la conseguente dannazione di innumerevoli anime, sono certamente attribuibili --anche-- alla pratica scomparsa della predicazione dei novissimi dovuta all'«ottimismo» del Concilio Vaticano II (cf ad esempio R. Amerio, Iota unum, Ricciardi, Milano- Napoli, 1985, pp. 581-590, per il caso dell'inferno).
       Ha fatto scalpore, pertanto, questa estate, la predicazione di Giovanni Paolo II su questi temi, predicazione preceduta da un articolo della Civiltà Cattolica sull'Inferno.
       Ritorno alla dottrina e alla ascetica tradizionale? Purtroppo la risposta, come vedremo, è negativa. Questa nostra conclusione si basa su di un attento esame dei tre discorsi tenuti da Giovanni Paolo II nel contesto della sua catechesi del mercoledì, durante l'udienza generale: quello sul Paradiso (O.R., 22/7/99, p. 4, che designeremo con "I"), quello sull'Inferno (O.R., 29/7/99, p. 4, che designeremo con "II") e quello sul Purgatorio (O.R., 5/8/99, p. 4, che designeremo con "III"). [...]        Ci limiteremo ai punti che creano difficolta', seppure in maniera non uniforme, alla fede del cattolico.

 

 

 

 

 

 

 

 




Terminologia e nuove definizioni. Un aldilà personalistico...

       Come in ogni buon trattato, iniziamo dalle definizioni (nominali e reali). I termini classici e ormai consacrati da un lungo uso da parte del Magistero (se non della Sacra Scrittura) sono visti con diffidenza ed accettati solo tra virgolette: così, Giovanni Paolo II parla di «Cielo» e «beatitudine» (e mai di Paradiso), e di «purgatorio». Solo l'inferno, con la minuscola, non è virgolettato, ma è accostato al termine dannazione come a un suo sinonimo. Tutto ciò, come vedremo, non a caso. Se passiamo dal termine utilizzato alle definizioni, notiamo subito un cambiamento di prospettiva rispetto al concetto corrente di Paradiso, Inferno e Purgatorio.
      [... ... ...]
       L'inferno è sottrarsi «alla comunione gioiosa con Dio» (II, 1), «auto-esclusione dalla comunione con Dio e con i beati» (II, 3; Catechismo della Chiesa cattolica, n. 1033) e non la privazione della visione di Dio; e il purgatorio sarebbe una comunione imperfetta (come tra le «chiese» cristiane nel post-concilio!) con Dio, per coloro che «si trovano in una condizione di apertura a Dio, ma in un modo imperfetto» (III, 1) e non ancora la privazione --seppur temporanea-- della vista di Dio.
       Da questo concetto personalista e soggettivista dell'aldilà, vengono immediatamente alcune conseguenze.

   



Dove sono il Paradiso, l'Inferno e il Purgatorio?
Da nessuna parte.

       Paradiso, Inferno e Purgatorio esprimono, anche etimologicamente, l'idea di un luogo, e solo di conseguenza l'idea della condizione e dello stato di chi si trova in questi luoghi. In effetti, solo ciò che non esiste non è in un luogo. Dove c'è un corpo, c'è anche un luogo; e pure gli spiriti, come l'anima separata, gli angeli e Dio stesso, sono nel luogo dove agiscono (per cui Dio è «in cielo, in terra e in ogni luogo»). Siccome in Paradiso si trovano Nostro Signore Gesù Cristo e la SS.ma Vergine con il loro corpo (seppur glorificato), e siccome dopo la risurrezione della carne tutti risorgeremo con il proprio corpo, è impossibile negare che il Paradiso e l'Inferno (e analogicamente pure il Purgatorio [...]) siano un luogo, senza negare, seppur implicitamente, l'esistenza di beati e di dannati, inclusi Cristo e la Madonna.
       Ora, è quello che fa Giovanni Paolo II. [...] Per quanto riguarda l'Inferno: «l'inferno sta ad indicare più che un luogo, la situazione in cui viene a trovarsi chi liberamente e definitivamente si allontana da Dio, sorgente di vita e di gioia» (II, 3). Per quanto riguarda il Purgatorio: «questo termine non indica un luogo, ma una condizione di vita» (III, 5). Evidentemente i Beati non si trovano tra le nubi del Paradiso della Lavazza o a portata dell'astronave di Gagarin, né i dannati si trovano nell'inferno di Renzo Arbore... Neppure si possono imporre come verità di fede le ipotesi degli scolastici, incluso San Tommaso, sul luogo del Paradiso e dell'Inferno. Ma ignorare con certezza la localizzazione non vuol dire negarla! Se ignoro dove si trova una persona, non posso certo dedurne che non si trova in alcun luogo... a meno di negare l'esistenza di questa persona, trasformata in un grumo di sensazioni e di esperienze di comunione o non-comunione con un Dio non-oggetto-di-conoscenza!
       Eppure, sia la Sacra Scrittura, sia le definizioni della Chiesa, sia la dottrina dei teologi, parlano chiaramente di «luogo» a proposito del nostro soggetto. Giuda suicida è andato «al luogo suo» (Atti, 1, 25), i demoni pregarono Gesù «che non comandasse loro d'andare nell'abisso» (Lc, 8, 31) dove Dio li aveva precipitati dopo il primo peccato (2 Pt, 2, 4), il ricco epulone «sepolto nell'inferno» si trova in un «luogo di tormento» (Lc, 16, 22-28), al nome di Gesù si piegano le ginocchia «degli esseri celesti e dei terrestri e di quei sotto terra» (Phil, 2, 10). Per la Chiesa, è un luogo l'inferno («le anime invece di coloro che muoiono in peccato mortale o con il solo peccato originale, discendono subito all'inferno, per essere tuttavia punite con diverse pene e in diversi luoghi» Giovanni XXIII, D.B. 493a, DS 926), è un luogo il purgatorio (Innocenzo IV parla del «luogo di ...purificazione» D.B. 456, D.S. 838, e Trento parla a proposito del purgatorio di «anime ivi trattenute», D.B. 983, D.S. 1820, termine ripreso nella professione di fede tridentina) ed il Canone della Messa definisce il Cielo «luogo di refrigerio, di luce e di pace» [il termine stesso di «paradiso» (Lc, 23, 43) indica un luogo]. Per Suarez, la localizzazione dell'inferno è addirittura una dottrina di fede cattolica (D.T.C., voce Enfer, col. 101). L'errore di Giovanni Paolo II è opposto a quello del luterano Brentz: per lui l'inferno è dappertutto, per Karol Wojtyla non è da nessuna parte (cf D.T.C., cit., col. 90).

 


 















 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 



L'inferno è una pena?

       Sembrerebbe ozioso porsi questa domanda, ma commentando Giovanni Paolo II non lo è. Il proprio della pena, insegna S.Tommaso, è di essere «afflittiva, contraria alla volontà e inflitta per una colpa» (I-II, q. 46, a 6 ad 2).
       Ora, Giovanni Paolo II scrive, a proposito dell'inferno:
        «non si tratta di un castigo di Dio, inflitto dall'esterno...»
(II, 1);
       «è questo stato di definitiva auto-esclusione dalla comunione con Dio e con i beati che viene designata con la parola 'inferno'
(N. 1033, del Catechismo della Chiesa cattolica)» (II, 3);
       «la 'dannazione' non va perciò attribuita all'iniziativa di Dio, poiché nel suo amore misericordioso non può volere che la salvezza degli esseri da lui creati. La 'dannazione' consiste proprio nella definitiva lontananza da Dio liberamente scelta dall'uomo e confermata con la morte che sigilla per sempre quell'opzione. La sentenza di Dio ratifica questo stato»
(II, 3).
       Certo, non esiste una calviniana predestinazione alla dannazione prima della previsione dei meriti. Certo, Dio, giusto giudice, condanna solo chi lo merita per i propri peccati. Certo, colui che muore nel peccato mortale è incapace di godere della visione di Dio poiché privo della grazia santificante (argomento che Giovanni Paolo II passa interamente sotto silenzio), né può amare Dio poiché il peccato lo fa suo nemico. Tuttavia, Dio (e Cristo) non è più giudice qual è, se non pronuncia una condanna e se non la esegue con un castigo che venga dall'esterno, come d'altra parte afferma chiaramente Gesù nel Vangelo: «andate via da me, maledetti, nel fuoco eterno, che è preparato per il diavolo e i suoi angeli» (Mt, 25, 41).
       Non si auto-esclude l'uomo entrato nella sala del banchetto senza veste nuziale, ma viene cacciato fuori dal Re: «legategli le mani e i piedi e gettatelo fuori nel buio, ivi sarà il pianto e lo stridor di denti» (Mt, 22, 13); come
       similmente il servo inutile della parabola dei talenti (Mt, 25, 30).
        Non si auto-escludono le vergini stolte, anzi, bussano alla porta dicendo: «Signore, Signore, aprici!», ma lo Sposo risponderà: «non vi conosco» (Mt, 25, 12).
       Non si auto-squarta il servo infedele: è il padrone che torna all'improvviso che «lo farà squartare e gli assegnerà la sorte degli ipocriti; ivi sarà pianto e stridor di denti» (Mt, 24, 51). Dio, che secondo Giovanni Paolo II non castiga, secondo Gesù deve essere temuto, poiché «dopo aver ucciso, ha il potere di gettarvi nella Geenna» (Lc, 12, 5).
       A che serve continuare, tanto è evidente quanto vogliamo dimostrare? Anche nella giustizia umana, il criminale si condanna in un certo senso da sé stesso col commettere il crimine, che lo rende degno di punizione; ma a questa punizione vorrebbe sfuggire se lo potesse (tranne il caso di vero pentimento, da escludersi nei dannati, perche' la morte ha fissato la loro volonta' nello stato in cui si trovavano in quel momento), e la pena gli è giustamente inflitta dal giudice, e non auto-inflitta.
         Per i motivi esposti sopra, però, si potrebbe a rigore intendere rettamente quanto sostenuto da Giovanni Paolo II se non esistesse che una pena del danno: la perdita di Dio, poiché questa perdita nel dannato è in effetti «l'ultima conseguenza dello stesso peccato, che si ritorce contro chi lo ha commesso» (II, 1). Ma questa posizione è indifendibile per quel che riguarda la pena del senso...

   



La pena del senso

       Ma per Giovanni Paolo II esiste in inferno la pena del senso? ovvero una pena che venga dal di fuori del dannato e provocata da una causa sensibile per volere positivo di Dio? (cf S. Tommaso, 2, d. 37, q. 3, a. 1)
       In tutto il discorso di Giovanni Paolo II non ve ne è il minimo accenno, anzi, se ne può trovare, volendo, l'implicita negazione: «non si tratta di un castigo di Dio inflitto dall'esterno» (II,)... Tutta la pena del dannato (pardon: la «completa frustrazione e vacuità», di cui in II, 3) gli viene dall'interno di se stesso, dalla sua insoddisfazione e infelicità per essersi chiuso all'amore (cf II, 3).
       Eppure l'esistenza di una pena del senso distinta dalla pena del danno (o dannazione) è da credersi di fede divina (Cardinal Gasparri, Catechismo cattolico per adulti, questioni dibattute, VII) e anche di fede cattolica esplicitamente definita dalla Chiesa (Sacrae Theologiae Summae, de novissimis, n. 149, B.A.C., Madrid, 1951); negarne l'esistenza sarebbe una eresia vera e propria (cf Benedetto XII, D.B. 531, D.S. 1002; Conc. Lione II, D.B. 464, D.S. 858).

 







 

 

 



«Nel fuoco eterno...». Giovanni Paolo II potrebbe essere assolto in confessionale?

       Ecco un'altra domanda stravagante, se non provocatoria!
Eppure, non senza fondamento.
       In effetti, il 30 aprile 1890, la Santa Sede (poiché la S. Penitenzeria è un organo della Santa Sede), interrogata se «si dovesse dare l'assoluzione ai penitenti che ammettono in Inferno solo un fuoco metaforico, e non un fuoco reale», rispose: «bisogna istruire con cura questi penitenti e, se si ostinano, non assolverli». (5)
       Ora, Giovanni Paolo II insegna per l'appunto che questo fuoco, di cui parla incessantemente la Sacra Scrittura --e particolarmente il Vangelo-- deve essere inteso simbolicamente. «Per descrivere questa realtà [dell'inferno] la Sacra Scrittura si avvale di un linguaggio simbolico (...). Ricorrendo ad immagini, il Nuovo Testamento presenta il luogo destinato agli operatori di iniquità come una fornace ardente, dove è 'pianto e stridore di denti' (Mt 13, 42; cfr 25, 30.41), oppure come la Geenna 'dal fuoco inestinguibile' (Mc, 9, 43) (...). Le immagini con cui la Sacra Scrittura ci presenta l'inferno devono essere rettamente interpretate» (II, 2-3).
       E quale ne è l'interpretazione 'autentica'? «Esse indicano la completa frustrazione e vacuità di una vita senza Dio» (ivi).
       Quindi, per Giovanni Paolo II il fuoco infernale (che è la principale pena del senso indicata dalla Sacra Scrittura) è solo un'immagine e un simbolo della pena del 'danno', il che equivale --ancora una volta-- a negare di fatto ogni distinzione tra le due pene. Anzi: più che della pena del danno (privazione della visione di Dio), qui Giovanni Paolo II sembra parlare solo di un fallimento esistenziale da cura psicanalitica («completa frustrazione e vacuità di una vita senza Dio»), il che è senza dubbio un bell'esempio di linguaggio personalistico (ma poco teologico) (6).
       Il Dictionnaire de Théologie Catholique (voce: Feu de l'Enfer) espone ampiamente la questione della realtà del fuoco dell'inferno nella Scrittura, nei Padri e nei teologi. La sua conclusione (coll. 217-219) è che la dottrina della realtà del fuoco dell'inferno è insegnata dal magistero ordinario universale in tal modo che non si tratta più di una questione libera. Negare questa realtà (trovandosi in compagnia di Origene e di Calvino) comporta almeno un peccato mortale di temerarietà (in quanto negazione della dottrina comune). Spingendosi oltre, il D.T.C. afferma che questa dottrina è teologicamente certa, anzi prossima della fede nonché definibile (cf anche Gasparri, Hugon, Lépicier, Billot, ecc.).

   


Ci sono dei dannati in Inferno?

       Ma --e questa non è una novità nel pensiero di Karol Wojtyla-- egli si spinge oltre, e giunge a ipotizzare la possibilità che in definitiva nessun uomo sia dannato. «La dannazione rimane una reale possibilità, ma non ci è dato di conoscere, senza speciale rivelazione divina, se e quali esseri umani vi siano effettivamente coinvolti» (II, 4).
       Sarebbe inutile cercare nei manuali di teologia pre-conciliari la refutazione di questo errore o eresia che dir si voglia, poiché nessuno era così folle da emettere un'ipotesi simile. La questione dibattuta era infatti quella sul relativamente piccolo o grande numero degli eletti rispetto a quello dei reprobi, ma nessuno, neppure gli autori più benigni e ottimisti, ipotizzava la soluzione estrema: la salvezza effettiva di tutti gli uomini. Una cosa, infatti, è dire che non possiamo sapere concretamente chi si è dannato senza una rivelazione speciale, come nel caso di Giuda (Atti, 1, 25; Jo 17, 12; Mt 26, 24; D.T.C., Enfer, col. 99), altra cosa è sostenere che (forse) nessuno si dannerà.
       In Varcare la soglia della speranza (p. 201-202), Wojtyla spiega più diffusamente il suo pensiero: «In Cristo, Dio ha rivelato al mondo di volere (7) che 'tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità' (I Tim, 2, 4). Questa frase della Prima Lettera a Timoteo ha un'importanza fondamentale [da sola?] per la visione e l'annuncio delle cose ultime. Se Dio desidera così, se Dio per questa causa dona suo Figlio (..) può l'uomo essere dannato, può essere respinto da Dio?».
       Già l'impostazione della domanda adombra la risposta negativa... Infatti: «da sempre il problema dell'inferno ha turbato i grandi pensatori della Chiesa, a partire dagli inizi, da Origene, sino ai nostri tempi, a Michail Bulgakov e Hans Urs von Balthasar».
       Ma Bulgakov non è un eretico gnostico? Balthasar un esponente della «nuova teologia» condannata da Pio XII che sperava nella salvezza universale a causa delle 'visioni' di una donna per la quale lasciò la Compagnia di Gesù?
       E Origene non fu condannato lui stesso?
       «In verità --deve ammettere Wojtyla-- gli antichi concili avevano respinto la teoria della cosiddetta apocatàstasi finale, secondo la quale il mondo sarà rigenerato dopo la distruzione e ogni creatura sarà salva; una teoria che indirettamente aboliva l'inferno».
       La Chiesa ha dunque parlato: l'Origenismo è condannato, i suoi turbamenti e quelli dei suoi epigoni sono eterodossi, la questione è chiusa!
       E invece «il problema è rimasto. Può Dio, il quale ha tanto amato l'uomo, permettere che costui lo rifiuti così da dover essere condannato a perenni tormenti?»
       Chiediamolo a Dio stesso!
        In effetti, ammette Giovanni Paolo II, «le parole di Cristo sono univoche. In Matteo Egli parla chiaramente di coloro che andranno al supplizio eterno (cfr 25, 46)».
       Quindi Giovanni Paolo II dovrebbe ora esplicitamente dire che qualcuno si danna!
       Invece confonde nuovamente le carte: «Chi saranno è un costoro? La Chiesa non si è pronunciata in merito. Questo è un mistero, veramente inscrutabile, tra la santità di Dio e la coscienza dell'uomo. Il silenzio della Chiesa è, dunque, l'unica posizione opportuna del cristiano. Anche quando Gesù dice di Giuda, il traditore, 'sarebbe meglio per quell'uomo che non fosse mai nato!' (Mt 26, 24), la dichiarazione non può essere intesa con sicurezza nel senso dell'eterna dannazione», per cui i lettori concluderanno che se Giuda, il 'figlio della perdizione', non si è perduto, tanto meno ci perderemo noi.
       Eppure, il Concilio di Quiercy ha definito: «Dio onnipotente 'vuole che tutti gli uomini' senza eccezione 'siano salvati' (1 Tim 2, 4); tuttavia non tutti vengono salvati» (D.S. 623; D.B. 318).
       Questa speranza di salvezza universale
       va contro al senso ovvio di tutto il Vangelo
(«le parole di Cristo sono univoche», ammette Giovanni Paolo II stesso),
        non tiene conto di quanti muoiono col solo peccato originale,
        va contro il dogma secondo il quale «fuori dalla Chiesa non c'è salvezza»,
       va contro, infine l'evidenza dell'esperienza quotidiana per gli stessi cattolici, che vivono comunemente in peccato mortale.

       E alla domanda degli apostoli «sono molti coloro che si salvano» Gesù non rispose loro che forse tutti si salvano, ma disse al contrario: «entrate nella porta stretta, perché larga è la porta e spaziosa la via che conduce alla perdizione, e molti sono quelli che entrano per essa; quanto stretta invece è la porta e angusta la via che conduce alla Vita, e quanti pochi sono quelli che la trovano» (Mt, 7, 13-14).

 













 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ecco chi sono i Grandi per Vojtyla: un Origene (già condannato dalla Chiesa proprio a motivo dell'Inferno), un Bulgakov (eretico gnostico) e un Balthasar (che è tutto un dire)!!!
Sant'Agostino? San Tommaso?.........
Carneade! chi sono costoro?

 

 



Chi va in Cielo, in Inferno, in Purgatorio?

       Abbiamo visto che forse --per Karol Wojtyla-- tutti vanno in Paradiso e nessuno in Inferno. Ma qui vogliamo parlare del criterio di giudizio. Nella sua catechesi sul Cielo, ad esempio, Giovanni Paolo II non fa mai menzione della grazia e della necessità di morire in grazia di Dio. Le sue espressioni sono, ancora una volta, vaghe e «personalistiche»:
       «coloro che hanno accolto Dio nella loro vita e si sono sinceramente aperti al suo amore almeno al momento della morte, potranno godere di quella pienezza di comunione con Dio, che costituisce il traguardo dell'esistenza umana»
(I, 1).
       Similmente per il Purgatorio, nessun accenno al peccato veniale o al peccato mortale perdonato ma non sufficientemente espiato;
       vanno in Purgatorio «quanti si trovano in condizione di apertura a Dio, ma in un modo imperfetto» (III, 1).
       In Inferno ci si va per un solo peccato mortale; Giovanni Paolo II menziona il peccato mortale solo in una citazione del Catechismo, ma visibilmente preferisce spiegare che può dannarsi colui che «respinge la misericordia del Padre anche nell'ultimo istante della sua vita» (I, 1). Ciò è senza dubbio vero, ma gli ascoltatori di Giovanni Paolo II --gli uomini moderni-- avevano certamente bisogno di farsi spiegare cosa significa esattamente respingere la misericordia del Padre o ostinarsi a «non aprisi al Vangelo» (I, 2). Chi dice di amar Dio ma muore in peccato, ha respinto la misericordia del Padre? Sarebbe opportuno precisare.

   


I Novissimi e la Sacra Scrittura


       Esaminiamo ora brevemente l'interpretazione della Scrittura che dà Giovanni Paolo II. Abbiamo già visto come egli riduca a simbolo e immagine quanto Gesù dice del Cielo e dell'Inferno. Segnaliamo altri errori.
       Egli esclude che la Rivelazione abbia chiaramente parlato dell'Inferno nell'Antico Testamento (cf II, 2). Se questo è vero per il Pentateuco, non è però esatto per i Profeti: Isaia, Ezechiele, Daniele (cf D.T.C., voce Enfer, coll. 35-36).
       Quanto alla dottrina del Purgatorio, essa non sarebbe «enunciata in modo formale» nella Scrittura (III, 2), mentre il Concilio di Trento sostiene che «la Chiesa cattolica (...) in conformità alle Scritture (...) ha insegnato che il Purgatorio esiste» (D.S. 1820) ed è stato condannato Lutero per aver sostenuto che «il Purgatorio non può essere provato mediante la sacra Scrittura che si trova nel canone» (Leone X, D.S. 1487, D.B. 777).
       Ma dei luoghi invocati dalla Chiesa in favore della dottrina del Purgatorio non viene citato né Mt 12, 32, né il libro dei Maccabei, ma solo 1 Cor, 3, 14-15. La dottrina del Purgatorio nel discorso che commentiamo è d'altronde ridotta all'osso. Non c'è traccia delle pene del Purgatorio, né di anime del Purgatorio. Nel Purgatorio ci si trova anzi «in cammino verso la piena beatitudine» (III, 1). Il Purgatorio sarebbe quindi una beatitudine semi-piena, più che un «inferno» transitorio.

 

 

 

 

 

 



Nequaquam moriemini (non morirete affatto)

       Sono le parole del serpente tentatore per indurre Eva --che esitava a causa del timore del castigo divino-- al peccato: «no davvero che non ne morirete»! (Gn 3, 4).
       Da allora, il demonio e i mondani si comportano così, rassicurando il peccatore (cf S. Ignazio, Esercizi spirituali, n. 314). «I mondani... per incorggiarsi a perseverare nella loro malizia senza scrupolo, gridano ogni giorno: 'Vita, vita! Pace, pace! Gioia, gioia!... Dio è buono. Dio non ci ha creato per dannarci; Dio non proibisce di divertirsi; non saremo dannati per quello; via gli scrupoli! Non moriemini [non morirete], ecc.» (S. Luigi Maria Grignon de Montfort, Lettera circolare agli amici della croce, n. 10).
       Pio XII insegna che «la predicazione delle prime verità della fede e dei novissimi non solo non ha perso nulla della sua opportunità anche ai nostri giorni ma è diventata persino più che mai necessaria e urgente. Anche la predicazione sull'inferno. Senza dubbio, bisogna trattare questo soggetto con dignità e saggezza. Ma quanto alla sostanza di questa verità, la Chiesa ha, davanti a Dio e davanti agli uomini, il sacro dovere di annunciarla, di insegnarla senza alcuna attenuazione, quale Cristo l'ha rivelata, e non c'è alcuna circostanza di tempo che possa diminuire il rigore di questo obbligo. Esso obbliga in coscienza ogni sacerdote al quale, nel ministero ordinario o straordinario, è stata affidata la cura di istruire, avvertire e guidare il fedeli. È vero che il desiderio del Cielo è un motivo in se stesso più perfetto del timore delle pene eterne; ma non ne segue che per tutti gli uomini sia anche il più efficace per trattenerli lontano dal peccato e per convertirli a Dio» (10). Giovanni Paolo II ha predicato i fini ultimi e l'inferno «senza alcuna attenuazione»? Giovanni Paolo II coltiva la speranza che tutti effettivamente si salvino, e che persino Giuda si sia salvato. Al contrario, Sant'Alfonso de' Liguori, dottore della Chiesa, predicava al popolo: «Tutti vanno in Paradiso? Oh, quanti pochi ci vanno!»(11).
       Il Vaticano II si è presentato come un Concilio pastorale, particolarmente attento, cioè, ai bisogni concreti delle anime.
       Karol Wojtyla stesso ha ammesso, con Vittorio Messori, l'efficacia pastorale della 'vecchia' predicazione dei novissimi: «quante persone furono indotte alla conversione e alla confessione da queste prediche e riflessioni sulle cose ultime! (...) Si può dire che tali prediche, perfettamente corrispondenti al contenuto della Rivelazione nell'Antico e nel Nuovo Testamento, penetravano profondamente nel mondo intimo dell'uomo. Scuotevano la sua coscienza, lo gettavano in ginocchio, lo conducevano alla grata del confessionale, avevano una loro profonda azione salvifica» (Varcare le soglie della speranza, pp. 197-198). Si tratta di un elogio, certo, ma di un elogio funebre: il Concilio ha inaugurato un «mutamento della prospettiva escatologica» (p. 200, cf pp. 198-200).
       Si tratta non solo di un mutamento dottrinalmente errato --lo abbiamo visto-- ma anche pastoralmente dannoso. La nuova predicazione dei fini ultimi
       svapora il Paradiso,
       rende il Purgatorio un Paradiso incompleto (e nel suo discorso Giovanni Paolo II non ha invitato a suffragare le anime purganti, se non vaghissimamente al n. 6) e
       l'Inferno uno stato d'animo di tristezza senza alcun uomo che lo sperimenti.
       Il neo-origenismo di Karol Wojtyla si inserisce nel solco di quegli eretici del passato, auto-denominatisi «misericordiosi», che volevano indirettamente abolire l'inferno e le sue sofferenze. Ma quale «misericordia» più crudele e ingiusta di quella che lascia i peccatori dormire sonni tranquilli, senza avvertirli dell'imminente castigo di Dio? Poiché «ormai la scure è già posta alla radice degli alberi; ogni albero dunque che non dà buon frutto sarà tagliato e gettato nel fuoco» (Mt, 4, 10).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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